Negare l’acqua e’ come negare il diritto alla vita

Il disegno è chiaro. Solo i ciechi non riescono a vederlo.

Stiamo vivendo un periodo davvero buio. I diritti conquistati in anni e anni di lotta stanno venendo meno. Ma questo “attacco” delle multinazionali all’acqua  è davvero  senza precedenti.

Franca e Vincenzo osb-cam

 

” …  l’accesso all’acqua pubblica e sicura è un diritto umano essenziale, fondamentale e universale, perché determina la sopravvivenza delle persone, e per questo è condizione per l’esercizio degli altri diritti umani. Questo mondo ha un grave debito sociale verso i poveri che non  hanno accesso all’acqua potabile, perché ciò significa negare ad essi il diritto alla vita radicato nella loro ineludubile dignità “.

Papa Francesco

Vedi questo piccolo video in cui Papa Francesco parla dell’acqua come bene comune.

Papa Francesco: “L’acqua è un bene comune”. 

 

Tutti invitati

Tutti invitati alla festa.

Gesù vuole tutti salvi.
Nel Regno c’è posto per tutti.
Ogni momento ci chiama e
non si arrende neanche di fronte ai nostri no,
non si stanca di chiamarci
e ci vuole tutti presenti alla festa.

Indossiamo l’abito nuovo e andiamo!!!

Franca e Vincenzo osb-cam

Dal Vangelo secondo Matteo –

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

“… andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”.

La paura impedisce la vita

“Fai quello che hai paura di fare”.

Semi di speranza.
Il cuore dell’uomo custodisce semi di speranza capaci di far germogliare i fiori più belli che possiamo immaginare. Questi piccoli semi, a volte invisibili, se curati saranno capaci di dare colore al mondo che ci circonda donando a chi ci sta intorno gioia e serenità.
Ma per essere luce occorre il coraggio di sperare, di abbandonare l’egoismo, di essere traghettatori di umanità, dispensatori di parole buone, … questo stile fa bene a noi e fa bene all’altro,
Tutti sappiamo bene cosa fare e come fare per seminare gioia e se abbiamo fatto qualcosa che non dovevamo basterà avere il coraggio di tornare sui nostri passi e riabbracciare il prossimo. Non è mai troppo tardi.
Se avrai questo coraggio, questo mondo, questo intrigato mondo, ricomincerà ad essere un giardino splendido dove la fraternità sarà di nuovo, per davvero, lo stile di vita più praticato e la terra tornerà ad essere quella che Dio ha immaginato quando l’ha creata.
Coraggio allora, inizia fin da subito ad innaffiare i semi del bene che porti nel cuore, metti da parte l’orgoglio, chiama quella persona che sai, chiamala e dille ciò che sai bene devi dirle e poi abbracciala forte. Solo cosi ricomincerai a vivere. Non aver paura di avere coraggio. Ascolta il tuo cuore e anche la tua vita sarà più bella.

Franca e Vincenzo osb-cam

Beati coloro che ascoltano la parola di Dio
e la osservano. (Lc 11,28)

Sognatori di speranza

Dall’altra parte del mondo in un paese (Bangladesh) che ha per simbolo la tigre del Bengala vive da alcuni decenni Padre Adolfo Limperio originario della nostra diocesi. Padre Adolfo che ha superato gli 80 anni è andato in missione spinto da un sogno e in tutti questi lunghi anni ha sempre sperato e sognato la vittoria del bene. Ed è così che questa mattina abbiamo pensato di condividere con voi (che siete sempre più numerosi a seguirci) la sua ultima lettera agli amici. A girarcela, come sempre, è Bruno Guizzi nostro carissimo amico. Anche in questa lettera padre Adolfo ci racconta, con tanti flash, scene di vita quotidiana, tanti piccoli segni di gioia e di speranza e alcune tristezze. Tutto ordinario, tutto semplice, tutto piccolo … la vita è davvero un grande mistero piena di sorprese e di sogni di speranza. Vivere è allora sognare speranze credendo che presto saranno realtà e quando questo accadrà, perché non può non accadere, sognare ancora spingendo i nostri passi sempre oltre ogni sogno. Se puoi immaginarlo può accadere. Vai allora, sogna.

Franca e Vincenzo osb-cam

 

Speranza –  12 Ottobre 2017

Miei carissimi amici,

Oggi sono giu’ di corda per diversi motivi,  ma risuona in testa  il detto del vecchio P.Sozzi che mi diceva , circa 47 anni fa’nel dopo guerra in…civile,  quando ero giu’ di corda : “ stupidoil domani e’ meglio di oggi”

Spontanea e’ sorta  alla mente una preghiera in alcuni momenti guardando questa mia  Chiesa di Dinajpur. Non e’ facile pregare, almeno per me, ma a volte la preghiera rispecchia o meglo illumina la realta’ o il momento che viviamo

Ora lascia, mio Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola, perche’ i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata  da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e Gloria del tuo popolo  Israele.

E’ capitato guardando laici, sacerdoti, suore  con il vescovo Sebastiano riuniti nella annuale assemblea pastorale della diocese di Dinajpur. Lascia, mio Signore……i  miei occhi hanno visto….  Una persona mi fa’ notare che ho una bella pretesa di essere servo del Signore…….. Un altro mi dice che Gesu’ parla ad amici, fratelli, sorelle……

Mi ha dato motivo il pregare nel sentire il relatore:  un sacerdote che ho  conosciuto da ragazzo e poi in seminario parlare con una bella voce chiara, sonora e con competenza  che : siamochiamati ad annunziare il Vangelo alla societa’ di oggi.

Nel vangelo spesso Gesu’ parla della Chiesa come vigna, che il Signore cura e dove invia o invita a lavorare. (a parte il fatto di pagare tutti con lo stesso danaro…pattuito)   La vigna e’ un terreno particolare dove si coltiva  la vite; pianta  particolare per il suo frutto da cui l’uomo ricava il vino.  Gesu’ lo usa come segno per unire coloro che credono in Lui. La vigna del Signore e’ la proposta di amore all’umanita’, segno di  speranza per tutti,

Poi e’ capitato seguendo un gruppo di laici impegnati in diocesi nel servizio alle “credit union” (cassa di risparmio)  Ed ancora,  leggendo la relazione della “credit union delle donne” della cattedrale di Dinajpur  che domani 13 Ottobre  avranno il loro 23esimo  incontro annuale’. Ringrazio P.Giulio Berutti per il suo lavoro e costante presenza. Posso dire :  i  miei occhi hanno visto… un modo di dare speranzaalle famiglie a fare piccoli passi nell’aiuto reciproco.

Ho pregato cosi’ ascoltando il giovane Limon nel fare il suo resoconto sull’incontro nazionale dei giovani student cattolici ospiti della diocese del Sileth, per celebrare i 25 anni del loro movimento. Presenza di Cristo nel mondo giovanile di cui si e’ seme, luce, sostegno.’ La Chiesa luce alle nazioni.

Silenzio e solitudine non danno ma tolgono la speranza : giorni fa un giovane di 27 anni si e’ impiccato.  Viveva da solo;  la mamma vedova  lavora a Dhaka. Con lei  ha parlato tramite telefonino….per due giorni…….“Non e’ bene che l’uomo siua solo”, dice il Signore.

Due ragazzi sono stati bastonati e fatti morire per aver rubato un telefonino, ma poi erano solo sospettati del furto. Silenzio della societa’ davanti al lavoro dei minorenni che puliscono le strade o lavorano in nero….buio nelle tante officine. Solitudine per mezzo milione di rifugiati che scappano da ritorsioni nel vicino Myanamr  Ma la cronaca nera e’ piena di fatti di non speranza .

A me piace sognare e cercare speranza o dare speranza. Da oggi iniziano gli esami governativi per i nostri ragazzi della decima (secondo ginnasio se non erro). Ebbene sono 70 ragazze e 54 ragazzi della scuola di Dhanjuri, Di essi 36 ragazze e 18  ragazzi del boarding che voi aiutate con il “sostegno allo studio.’. Sembra che le ragazze sono piu’ interessate a studiare. Ragazzi molto spesso lasciano la scuola per lavoro prima del tempo.

Un caloroso augurio di ottimi risultati con tanta speranza.

Il nostro Roni, che continua a dare due giorni alla settimana ai ragazzi del boarding di Dhanjuri si e’ fidanzato con Mucti ed a Dicembre celebreranno le nozze, Tutti invitati.

A fine mese pellegrinaggio diocesano al santuario di Rajarampur dedicato alla Madonna del Rosario . Un’Ave.

In questi giorni abbiamo la visita Bangladesh P.Brambillasca, Superiore Generale del PIME. Benvenuto !!!!.   Poi, come avete saputo dalla stampa, a fine Novembre e primi di Dicambrepapa Francesco sara’ in Bangladesh.

Chiudo qui per chiedere a Maria speranza:

O Maria, la fede e la speranza vegliano dolorose nella tua anima ricevendo Gesu’ deposto dalla croce.

Tante volte nella nostra vita ricevere Gesu’ deposto dalla Croce e’ un segno della fine, della rovina completa senza appello. La croce senza Gesu’ e’ un peso….

O Maria nelle ore incomprensibili  della nostra vita quando tutto sembra finito e Gesu’ sembra morto, donaci la forza della tua speranza perche’ spesso, proprio allora la sorgente della vita e’ molto vicina.  Madre della speranza aiutaci.

La croce con Gesu’ e’ redenzione.

Dal vostro sempre piu’ anziano borbottone fr.Adolfo

Sotto la luna, la “carezza” di un bambino agli adulti

Ieri sera nel cielo c’era una luna così bianca che sembrava cercasse di scrutarci.  Dall’alto tutto è più chiaro e se sei attento, riesci a scorgere ogni piccolo movimento.  Un po’ come il Signore che è capace di “vedere” ogni più piccolo riflesso del cuore, ogni più piccolo sussulto dell’anima, ogni emozione, ogni gioia e ogni tristezza. Inutile nascondersi,  basta un piccolo spostamento e anche l’ombra può tradirti. Ma ieri è stata una sera speciale. Cinquantacinque anni fa, infatti, san Giovanni XXIII apriva quella pagina straordinaria di Chiesa che è stato il Concilio Vaticano II. Un evento ecclesiale che ci ha consegnato una Chiesa nuova e più attrezzata a camminare fianco a fianco ad ogni persona, anche se fosse stata non credente.  San Giovanni XXIII quasi al termine del suo discorso detto “alla luna” aveva invitato i presenti, tornando a casa, a portare la carezza del papa ai bambini. Rompeva, di fatto, un protocollo ingessato da secoli e apriva un nuovo orizzonte dove la vita buona del vangelo si faceva storia ordinaria, prassi dei semplici, quotidianità. Allo stesso modo, ieri sera, nell’assemblea pastorale diocesana di Gaeta abbiamo colto, con l’intera platea, un segno simile. Questa volta, però, è stato il vescovo monsignor Luigi Vari a mostrare un nuovo orizzonte e lo ha fatto con una sua meditazione e poi con la voce di un ragazzo che, con le sue poche e semplici parole, ha accarezzato tutti gli adulti donando, a sorpresa, un nuovo orizzonte verso il quale camminare insieme, uniti e in fraternità.

Bello!!!

Davvero bello aver avuto la possibilità di cogliere questa suggestione che, con semplicità e grande efficacia, sintetizza tutto un progetto da scrivere, però, con la vita, fuori dagli schemi e da rigide regole predefinite.

Franca e Vincenzo osb-cam

 

 

 

 

 

Domare l’ira, la rabbia e la delusione

Certe ferite scavano solchi così profondi che segnano la memoria in maniera indelebile eppure è proprio in queste situazioni che si comprende che l’unica via possibile per la guarigione passa attraverso la consapevoleza del male subito. È da questa presa di coscienza che può partire davvero un cammino di guarigione che ci allontana piano piano dal male subito facendo crescere dentro di noi l’amore.

Quando riceviamo il male da una persona a cui siamo legati il dolore e la ferita sono ancora più profondi e fanno ancor più male. Così è accaduto a Dio tradito dal suo popolo. Ma come ha reagito Dio? La Bibbia ci mostra che nonostante l’ira, la delusione e la rabbia Dio perdona. Dare il perdono a chi ci ha tradito e ci ha offeso è  davvero  la via migliore per abbattere l’ira e far crescere l’amore. Si tratta di perdonare ogni male superando ogni desiderio di vendetta. Questo è l’unico modo che conosciamo per conquistare la pace nel cuore. Gesù si comporta cosi con i suoi aguzzini che, dopo un processo farsa, lo  crocifiggono  procurandoli una lunga agonia. La sua è stata una morte lenta, dolorosa e, peggio ancora, avvenuta nella indifferenza dei più e tra lo scherno dei suoi detrattori. Nonostante ciò, Gesù, prima di muorire invoca il perdono per i suoi assassini.

La croce, quindi, è via della salvezza, luogo che trasforma  l’odio in perdono.

Dopo, solo dopo, saremo capaci di vivere una vita secondo Cristo. Il resto è il nulla solo miserie umane vestite di odio e di rancori; solo azioni prive di  una reale ragione. Il perdono, infatti, dona pace e vita.

Questa è la via percorsa da Gesù e questa è la via che noi, chiamati ad imitarlo, siamo invitati ad esplorare.

Franca e Vincenzo osb-cam

E Gesù disse loro:

«Quando pregate, dite:
Padre,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno;
dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
e perdona a noi i nostri peccati,
anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore,
e non abbandonarci alla tentazione».

Ed ora inizia a camminare…

 

 

Tra Marta e Maria

Un po’ Marta un po’ Maria,
un po’ azione e un po’ contemplazione.
Un po’ la necessità delle opere e
un po’ il bisogno della Parola.
Siamo presi dalla testimonianza
ma non possiamo fare a meno di ascoltare.
L’una e l’altra cosa sono indispensabili.
Questo ci dice, oggi, questa pericope e
questo siamo chiamati a fare.
Marta e Maria sono i due poli dentro i quali la vita in Cristo trova la via di farsi vita quotidiana, espressione autentica di una testimonianza davvero credibile.
Tutto avviene in casa, luogo di preghiera e di accoglienza dell’altro; luogo nel quale la Parola ispira la vita e offre una speranza semplice e credibile; luogo scelto da Gesù per incontrare le persone e per entrare nel loro cuore donando speranza e futuro.
La casa, perciò, le nostre case sono il posto nel quale ogni famiglia può e deve pregare, accogliere ed ascoltare.

Franca e Vincenzo osb-cam

«Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».

Quanto e’ difficile amare.

Quanto è difficile amare. Spesso si confonde l’amore con il possesso. Più spesso ancora ci si arroga il diritto di conoscere il cuore dell’altro ed è ancora più comune trovare chi, con leggerezza, giudica il cuore dell’altro. Ebbene il Vangelo di oggi ci parla di amare il prossimo come noi stessi e non di un generico “voler bene”. Per comprenderne la differenza ci affidiamo ad un noto  passo del “piccolo principe” e dopo aver riflettuto proviamo a decidere se amare come ci suggerisce Gesù nel vangelo di oggi Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso».)o se vogliamo voler bene oppure se preferiamo restare indifferenti di fronte al nostro prossimo che soffre o, peggio ancora, essere noi la causa della sua sofferenza.

Franca e Vincenzo osb-cam

Dal Piccolo Principe

Ti amo» – disse il Piccolo Principe.

«Anche io ti voglio bene» – rispose la rosa.

«Ma non è la stessa cosa» – rispose lui. – «Voler bene significa prendere possesso di qualcosa, di qualcuno. Significa cercare negli altri ciò che riempie le aspettative personali di affetto, di compagnia. Voler bene significa rendere nostro ciò che non ci appartiene, desiderare qualcosa per completarci, perché sentiamo che ci manca qualcosa.»

Voler bene significa sperare, attaccarsi alle cose e alle persone a seconda delle nostre necessità. E se non siamo ricambiati, soffriamo. Quando la persona a cui vogliamo bene non ci corrisponde, ci sentiamo frustrati e delusi.

Se vogliamo bene a qualcuno, abbiamo alcune aspettative. Se l’altra persona non ci dà quello che ci aspettiamo, stiamo male. Il problema è che c’è un’alta probabilità che l’altro sia spinto ad agire in modo diverso da come vorremmo, perché non siamo tutti uguali. Ogni essere umano è un universo a sé stante.

Amare significa desiderare il meglio dell’altro, anche quando le motivazioni sono diverse. Amare è permettere all’altro di essere felice, anche quando il suo cammino è diverso dal nostro. È un sentimento disinteressato che nasce dalla volontà di donarsi, di offrirsi completamente dal profondo del cuore. Per questo, l’amore non sarà mai fonte di sofferenza.

Quando una persona dice di aver sofferto per amore, in realtà ha sofferto per aver voluto bene. Si soffre a causa degli attaccamenti. Se si ama davvero, non si può stare male, perché non ci si aspetta nulla dall’altro. Quando amiamo, ci offriamo totalmente senza chiedere niente in cambio, per il puro e semplice piacere di “dare”. Ma è chiaro che questo offrirsi e regalarsi in maniera disinteressata può avere luogo solo se c’è conoscenza.

Possiamo amare qualcuno solo quando lo conosciamo davvero, perché amare significa fare un salto nel vuoto, affidare la propria vita e la propria anima. E l’anima non si può indennizzare. Conoscersi significa sapere quali sono le gioie dell’altro, qual è la sua pace, quali sono le sue ire, le sue lotte e i suoi errori. Perché l’amore va oltre la rabbia, la lotta e gli errori e non è presente solo nei momenti allegri.

Amare significa confidare pienamente nel fatto che l’altro ci sarà sempre, qualsiasi cosa accada, perché non ci deve niente: non si tratta di un nostro egoistico possedimento, bensì di una silenziosa compagnia.

Amare significa che non cambieremo né con il tempo né con le tormente né con gli inverni.

Amare è attribuire all’altro un posto nel nostro cuore affinché ci resti in qualità di partner, padre, madre, fratello, figlio, amico; amare è sapere che anche nel cuore dell’altro c’è un posto speciale per noi. Dare amore non ne esaurisce la quantità, anzi, la aumenta. E per ricambiare tutto quell’amore, bisogna aprire il cuore e lasciarsi amare.

«Adesso ho capito» – rispose la rosa dopo una lunga pausa.

«Il meglio è viverlo» – le consigliò il Piccolo Principe.

Il vero problema e’ la mancanza di poverta’

«La vita consacrata inizia a corrompersi dalla mancanza di povertà». Papa Francesco lo afferma nella cattedrale bolognese di San Pietro, incontrando, in questa giornata di visita nel capoluogo dell’Emilia Romagna, sacerdoti, religiosi, seminaristi e diaconi locali. «Se una congregazione perde i suoi averi, io dico “Grazie Signore”».

È presente anche monsignor Bettazzi, testimone storico del Concilio Vaticano II , vescovo emerito di Ivrea, bolognese di origini materne; a Bologna è stato ordinato prete ed è diventato cittadino onorario. Francesco e Bettazzi scherzano insieme per qualche istante prima del discorso papale. E l’arcivescovo di Bologna monsignor Matteo Maria Zuppi lo citerà nel suo saluto introduttivo a Francesco. Esordisce il Papa: «È una consolazione stare con quelli che portano avanti l’apostolato della Chiesa; i religiosi cercano di dare testimonianza di anti-mondanità».

Al Pontefice vengono poste due domande: una sulla fraternità tra sacerdoti, l’altra sulla «psicologia della sopravvivenza»; a entrambe risponde senza testi scritti, tranne qualche appunto che prende anche mentre parla lui stesso. Afferma il Papa: «A volte, scherzando tra religiosi diocesani e non, i religiosi dicono: “Io sono dell’ordine fondato dal santo tale…”; ma qual è il centro della spiritualità del presbitero? – si domanda il Papa – La diocesaneità». Essere presbiteri è «una esperienza di appartenenza, si appartiene a un corpo che è la diocesaneità». Questo «significa che tu», prete, religioso, «non sei un libero», non ci sono figure di «libero», come nel calcio. Invece «sei un uomo che appartiene a un corpo, che è la diocesaneità, il corpo presbiterale». Tutto ciò «lo dimentichiamo tante volte, diventando singoli, troppo soli, col pericolo di divenire infecondi o con qualche nervosismo, per non dire che si diventa nevrotici, un po’ zitelloni».

Un prete «solo che non ha rapporto con il corpo presbiterale, mah», dice con amarezza. Dunque è importante «far crescere il senso della diocesaneità, che ha anche una dimensione di sinodalità col vescovo». Il corpo diocesano «ha una forza speciale, deve andare avanti sempre con la trasparenza, la virtù della trasparenza, il coraggio di parlare, di dire tutto». E anche con «il coraggio della pazienza, di sopportare gli altri. È necessario».

Sul coraggio di parlare chiaro e sull’opposta comodità di non esporsi, racconta: «Mi ricordo quando ero studente di Filosofia, e un vecchio gesuita furbacchione mi diceva: “Se vuoi sopravvivere nella vita religiosa, pensa chiaro, ma parla oscuro”». Aneddoto che suscita un forte sorriso tra i presenti in Cattedrale. Francesco osserva come sia «triste quando un pastore non ha orizzonte del popolo di Dio, non sa che cosa fare»; ed è «molto triste quando le chiese rimangono chiuse, quando si vede una scheda nella porta: “Aperta da tale ora a tale ora”, per il resto del tempo non c’è nessuno, le confessioni solo per poche ore. Ma questo non è un ufficio, è il posto dove si viene a onorare il Signore, e se il fedele trova la porta la chiusa come può fare?». A volte «pensa alle chiese sulle strade popolose, che restano chiuse: qualche parroco ha fatto esperienza di aprirle, sempre con un confessore disponibile: e il confessore non finisce di confessare», talmente arriva gente, perché «sempre la porta è aperta», e la luce del confessionale resta sempre accesa.

Poi il Vescovo di Roma parla di «due vizi che ci sono dappertutto». Uno è «pensare il servizio presbiterale come carriera ecclesiastica». Francesco si riferisce agli «arrampicatori»: essi sono una «peste, non presbiterio. Gli “arrampicatori”, che sempre hanno le unghie sporche, perché sempre vogliono andare su. Un arrampicatore è capace di creare tante discordie in seno al corpo presbiterale: pensa alla carriera, “adesso mi danno questa parrocchia, poi me ne daranno una più grande”, e se il vescovo non gliene dà una abbastanza importante, si arrabbia: “A me tocca…” a te non tocca niente!», esclama. Poi aggiunge: «Gli arrampicatori fanno tanto male, perché sono in comunità ma pensano solo ad andare avanti loro».

L’altro vizio: «Il chiacchiericcio: “Si dice, hai visto”, e così la fama del fratello prete finisce sporcata, si rovina. “Grazie a Dio che non sono come quello”, questa è musica del chiacchiericcio». Il carrierismo e il chiacchiericcio sono due vizi del «clericalismo», afferma Francesco. Invece, un pastore è chiamato al «buon rapporto col popolo di Dio, a cui deve stare davanti per indicare il cammino»; deve stargli «in mezzo per aiutare» soprattutto «nelle opere di carità; dietro per guardare come va».

Credere nella «“psicologia della sopravvivenza” – prosegue – significa aspettare la carrozza funebre, che porta il nostro istituto» alla chiusura. Credere alla psicologia della sopravvivenza conduce «al cimitero». Si tratta di «pessimismo, e non è da uomini e donne di fede, non è atteggiamento evangelico, ma di sconfitta». E mentre magari «aspettiamo la carrozza, ci arrangiamo come possiamo, e prendiamo dei soldi per essere al sicuro. Questo porta a mancanza di povertà». La psicologia della sopravvivenza è «cercare la sicurezza nei soldi; si ragiona, si sente a volte: “Nel nostro istituto siamo vecchie e non ci sono vocazioni ma abbiamo dei beni per assicurarci la fine”, e questa è la strada più adatta per portarci alla morte». La sicurezza «nella vita consacrata non la dà l’abbondanza dei soldi, ma viene da un’altra parte», da Dio. Alcune congregazioni «che diminuiscono mentre i suoi beni crescono, con religiosi attaccati ai soldi come sicurezza: ecco la psicologia della sopravvivenza».

Il problema «non è tanto la castità o l’obbedienza, ma nella povertà. La vita consacrata inizia a corrompersi dalla mancanza di povertà». Sant’Ignazio di Loyola «chiamava la povertà madre e muro nella vita religiosa: madre che genera e muro che difende dalla mondanità». Senza questo atteggiamento volto alla povertà e al disinteresse, non si «scommette nella speranza divina». I soldi «sono la rovina della vita consacrata». Ma Dio è buono, «perché quando una congregazione inizia a incassare, manda un economo che distrugge tutto». Rivela il Papa, sorridendo: «Quando sento che una congregazione perde i suoi averi, io dico “Grazie Signore».

Il Papa esorta ad «un esame di coscienza sulla povertà, sia personale che dell’istituto». Sulla mancanza di vocazioni, bisogna «chiedere al Signore: “Che cosa succede nel mio istituto? Perché manca quella fecondità? Perché i giovani non sentono entusiasmo per il carisma del mio istituto? Perché ha perso la capacità di chiamare?». Per Francesco, il «cuore» del problema è «la povertà». Di qui un incoraggiamento: «La vita consacrata è uno schiaffo alla mondanità spirituale. Andate avanti».

ARTICOLO PUBBLUCATO IL 1 OTTOBRE 2017 SUL QUOTIDIANO “La Stampa”.

 

 

 

“La coscienza e basta”

“Dio non ci giudicherà sulla religione o sul vangelo ma sulla coscienza. Colui che in coscienza fa il bene è accetto a Dio.

La coscienza e basta!!!
Padre Colombano, monaco camaldolese ed eremita

Ieri sera all’età di 103 anni e 90 di vita monastica padre Colombano, monaco camaldolese eremita di Montegiove è ritornato alla casa del Padre.
Padre Marino che nel monastero di Montegiove ha il compito speciale dell’accoglienza parlando di Colombano aveva detto: «È il nonno saggio, colonna portante dell’eremo. Nonostante viva nel suo raccoglimento e solitudine, è l’anima del luogo».

Padre Colombano Vuilleumier, Marius Renè (battesimo), nasce il 7 aprile 1914 – Holderbank (Basilea) – Svizzera. Ancora giovanissimo, a circa 12 anni entra nella Congregazione dei Redentoristi. Viene ordinato presbitero il 30 luglio 1939. Il 16 ottobre del 1940 entra nella Congregazione Camaldolese, presso l’Eremo di Camaldoli, dove emette la professione solenne il 7 febbraio 1943. Agli inizi degli anni ’60 si trasferisce all’Eremo di Monte Giove. La sua scelta di solitudine non gli ha impedito di poter annunciare il Vangelo tramite i suoi libri e gli incontri con le persone. Accanto alla sua integerrima personale disciplina, i suoi occhi chiari e profondi rivelano dei tratti di ironia e umanità che lo rendono capace di vivere in pienezza ogni istante della propria giornata.

Cara/o amica/o se vuoi dici una preghiera per Padre Colombano che nella sua vita ha molto amato.

Franca e Vincenzo osb-cam