Pregare con partecipazione interiore

La giusta partecipazione interiore è fondamentale perché la nostra preghiera sia vera e, diciamo, efficace. Esteriormente la forma della preghiera può essere la stessa ma la partecipazione interiore è ciò che fa la differenza; è ciò che la rende efficace; è ciò che da alla preghiera la possibilità reale di essere tale. Ne troviamo una esplicazione in Giobbe: ”Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono” (Gb 42,5).

Si tratta di scoprire in se stessi un “cuore nuovo” … Quel cuore che vede l’oltre, che  sa  cogliere la presenza del divino e riesce ad ascoltare la voce di Dio e a “toccare” la sua presenza nello Spirito.

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L’ufficio notturno in estate e di domenica

La preghiera con la liturgia delle ore caratterizza in maniera significativa la vita dei monaci … San Benedetto, come stiamo cercando di capire, la regolamenta nei dettagli e lo fa offrendo una serie di indicazioni molto precise. Di qui nasce uno stile che aiuta l’unità e costruisce ponti di fraternità oltre ogni limite e distinzione di sesso, di lingua, di razza, ecc. Ed è  cosi che ognuno può pregare lodi, ore medie, vespri e compieta nella propria lingua, nella propria terra, con il proprio ruolo,  sapendo che tutti stanno recitando le stesse preghiere allo stesso modo. Questo crea unità. Bello!

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I salmi dell’ufficio notturno

La preghiera notturna dei monaci si svolgeva nel rispetto di regole precise che San Benedetto ha indicato. Questo non solo perché tutti i monasteri vivessero uno stesso stile di preghiera ma anche perché la liturgia fosse ordinata e pulita, semplice ma anche piena di un sentire comune che trovasse espressione anche nella condivisione di una modalità espressiva unitaria.

Un bel proposito il cui rispetto sarebbe bello anche in questo nostro tempo nel quale sempre più  spesso spuntano “solisti” che vivono nuove modalità stilistiche che creano tanti piccoli cerchi chiusi in se stessi.

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Diacono, icona di Cristo servo

Domani, 28 aprile 2017, insieme ad altri 7 confratelli, facciamo memoria dei nostri 10 anni di ordinazione diaconale. Ringrazio l’Arcivescovo Luigi Vari che ha voluto programmare una celebrazione eucaristica con tutti i diaconi e con chi altro desidera partecipare presso la Chiesa dei Santi Lorenzo e Giovanni a Formia alle ore 19,00  e, in questa vigilia, condivido con tutti voi questo scritto presente sul sito della diocesi di Ravenna sul diaconato e i diaconi. I diaconi, ricordo a me stesso, sono  ministri sacri e membri del clero, ma soprattutto sono “icona del Cristo servo”. Proprio quest’ultima definizione è quella che più di tutte siamo chiamati a meditare e vivere. Se volete pregate per noi.

TRATTO DAL SITO DELLA DIOCESI DI RAVENNA

“…con il sacramento dell’ordine, quegli uomini [i diaconi] fanno parte integrante del clero, anche se sono sposati, hanno famiglia, svolgono un lavoro (non ricevono alcun compenso dalla Chiesa per il loro servizio) e sono impegnati nel mondo, ma, come tutti i cristiani, sono nel mondo, ma non sono del mondo. Il Vescovo Mons. Monari così scrive: “Non c’è dubbio che il diacono è presente e opera nella Chiesa come ‘icona vivente del Cristo servo'” e basterebbe questa affermazione per aprire spazi immensi di riflessione, di meditazione, di servizio, di formazione spirituale. L’appartenenza dei diaconi al sacramento dell’ordine “è una dottrina sicura”. Infatti, il Codice di diritto Canonico al Titolo VI Can.1008 e 1009, modificati…dal Papa Benedetto XVI con Motu Proprio, recita: ‘Con il sacramento dell’ordine per divina istituzione alcuni tra i fedeli, mediante il carattere indelebile con il quale vengono segnati, sono costituiti ministri sacri; coloro cioè che sono consacrati e destinati a servire, ciascuno nel suo grado, con nuovo e peculiare titolo, il popolo di Dio’. Gli ordini sono l’episcopato, il presbiterato e il diaconato. ‘Coloro che sono costituiti nell’ordine dell’episcopato o del presbiterato ricevono la missione e la facoltà di agire nella persona di Cristo Capo, i diaconi invece vengono abilitati a servire il popolo di Dio nella diaconia della liturgia, della parola e della carità’.
…il Concilio Vaticano II…ha restaurato dopo molti anni il diaconato come grado a se stante del sacramento dell’ordine com’era nella Chiesa fin dai suoi primi anni.
Lumen gentium, Cap. III, Costituzione gerarchica della Chiesa n. 29: ‘In un grado inferiore della gerarchia stanno i diaconi, ai quali sono imposte le mani ‘non per il sacerdozio, ma per il servizio’. Infatti, sostenuti dalla grazia sacramentale, nella ‘diaconia’ della liturgia, della predicazione e della carità servono il popolo di Dio, in comunione col vescovo e con il suo presbiterio. È ufficio del diacono, secondo le disposizioni della competente autorità, amministrare solennemente il battesimo, conservare e distribuire l’Eucaristia, assistere e benedire il matrimonio in nome della Chiesa, portare il viatico ai moribondi, leggere la Sacra Scrittura ai fedeli, istruire ed esortare il popolo, presiedere al culto e alla preghiera dei fedeli, amministrare i sacramentali, presiedere al rito funebre e alla sepoltura. Essendo dedicati agli uffici di carità e di assistenza, i diaconi si ricordino del monito di S. Policarpo: ‘Essere misericordiosi, attivi, camminare secondo la verità del Signore, il quale si è fatto servo di tutti”.
(sul sito dell’ Arcidiocesi di Ravenna – Cervia).

Ringrazio il confratello diacono Mario Elpini che me lo ha inviato.

Con il cuore umile

L’umiltà, ieri come oggi, è una pratica difficile da vivere e San Benedetto consapevole delle notevoli difficoltà a viverla anche da parte del monaco indica 12 gradini da percorrere. In questo settimo capitolo della Regola San Benedetto cita ampiamente la Scrittura e lo fa con l’intenzione di dare più forza al cammino che propone di compiere per essere umili.

  1. La sacra Scrittura si rivolge a noi, fratelli, proclamando a gran voce: “Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”.
  2. Così dicendo, ci fa intendere che ogni esaltazione è una forma di superbia,
  3. dalla quale il profeta mostra di volersi guardare quando dice: “Signore, non si è esaltato il mio cuore, né si è innalzato il mio sguardo, non sono andato dietro a cose troppo grandi o troppo alte per me”.
  4. E allora? “Se non ho nutrito sentimenti di umiltà, se il mio cuore si è insuperbito, tu mi tratterai come un bimbo svezzato dalla propria madre”.
  5. Quindi, fratelli miei, se vogliamo raggiungere la vetta più eccelsa dell’umiltà e arrivare rapidamente a quella glorificazione celeste, a cui si ascende attraverso l’umiliazione della vita presente,
  6. bisogna che con il nostro esercizio ascetico innalziamo la scala che apparve in sogno a Giacobbe e lungo la quale questi vide scendere e salire gli angeli.
  7. Non c’è dubbio che per noi quella discesa e quella salita possono essere interpretate solo nel senso che con la superbia si scende e con l’umiltà si sale.
  8. La scala così eretta, poi, è la nostra vita terrena che, se il cuore è umile, Dio solleva fino al cielo;
  9. noi riteniamo infatti che i due lati della scala siano il corpo e l’anima nostra, nei quali la divina chiamata ha inserito i diversi gradi di umiltà o di esercizio ascetico per cui bisogna salire.

 

L’amore del silenzio

Questo è il tempo del Silenzio. Fare silenzio è sempre più un’esigenza di questo tempo. Una necessità  che viene avvertita come indispensabile da un certo numero di persone sempre più  stanche del chiasso e del rumore che invade ogni momento della giornata.  Crediamo, infatti, che, nascosto dal rumore nel quale siamo immersi, il nostro Spirito stia cercando con avidità una dimensione di vita piena di silenzio, piena di possibilità e capacita di ascoltare la voce del  silenzio. Insomma dopo il rumore della modernità crediamo che si stia preparando un tempo di grande silenzio, di grande mistero, di grande comunicazione non verbale. Una comunicazione fatta di sguardi, di gesti, di parole solo appena sussurrate. Una comunicazione più vera e più autentica capace di toccare le corde dell’emozione e di guidare la vita su sentieri tanto intensi quanto coinvolgenti. Vediamo cosa suggerisce  San Benedetto nella sua Regola e se questa può aiutarci a recuperare la nostra umanità più profonda.

  1. Facciamo come dice il profeta: “Ho detto: Custodirò le mie vie per non peccare con la lingua; ho posto un freno sulla mia bocca, non ho parlato, mi sono umiliato e ho taciuto anche su cose buone”.
  2. Se con queste parole egli dimostra che per amore del silenzio bisogna rinunciare anche ai discorsi buoni, quanto più è necessario troncare quelli sconvenienti in vista della pena riserbata al peccato!
  3. Dunque l’importanza del silenzio è tale che persino ai discepoli perfetti bisogna concedere raramente il permesso di parlare, sia pure di argomenti buoni, santi ed edificanti, perché sta scritto:
  4. “Nelle molte parole non eviterai il peccato”
  5. e altrove: “Morte e vita sono in potere della lingua”.
  6. Se infatti parlare e insegnare é compito del maestro, il dovere del discepolo è di tacere e ascoltare.
  7. Quindi, se bisogna chiedere qualcosa al superiore, lo si faccia con grande umiltà e rispettosa sottomissione.
  8. Escludiamo poi sempre e dovunque la trivialità, le frivolezze e le buffonerie e non permettiamo assolutamente che il monaco apra la bocca per discorsi di questo genere.

Obbedire in umilta’ e gustare la vita

Obbedire è il segno di una buona vocazione provata nel crogiuolo della vita. Un “essere” che pur non cancellando i pensieri li piega al volere di Dio. Questo stile di vita è, per davvero, il frutto di un cammino di purificazione che ci fa toccare il cielo è ci dona quella pace che è aspirazione di tanti.  Vivere nell’obbedienza, quindi, ci fa percepire i piccoli odori di campo permettendo al cuore di notare le più minuscole sfumature della vita.

Ed ecco cosa scrive San Benedetto riguardo all’obbedienza.

  1. Il segno più evidente dell’umiltà è la prontezza nell’obbedienza.
  2. Questa è caratteristica dei monaci che non hanno niente più caro di Cristo
  3. e, a motivo del servizio santo a cui si sono consacrati o anche per il timore dell’inferno e in vista della gloria eterna,
  4. appena ricevono un ordine dal superiore non si concedono dilazioni nella sua esecuzione, come se esso venisse direttamente da Dio.
  5. E’ di loro che il Signore dice: ” Appena hai udito, mi hai obbedito”
  6. mentre rivolgendosi ai superiori dichiara: “Chi ascolta voi, ascolta me”.
  7. Quindi, questi monaci, che si distaccano subito dalle loro preferenze e rinunciano alla propria volontà,
  8. si liberano all’istante dalle loro occupazioni, lasciandole a mezzo, e si precipitano a obbedire, in modo che alla parola del superiore seguano immediatamente i fatti.
  9. Quasi allo stesso istante, il comando del maestro e la perfetta esecuzione del discepolo si compiono di comune accordo con quella velocità che è frutto del timor di Dio:
  10. così in coloro che sono sospinti dal desiderio di raggiungere la vita eterna.
  11. Essi si slanciano dunque per la via stretta della quale il Signore dice: “Angusta è la via che conduce alla vita”;
  12. perciò non vivono secondo il proprio capriccio né seguono le loro passioni e i loro gusti, ma procedono secondo il giudizio e il comando altrui; rimangono nel monastero e desiderano essere sottoposti a un abate.
  13. Senza dubbio costoro prendono a esempio quella sentenza del Signore che dice: “Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato”.
  14. Ma questa obbedienza sarà accetta a Dio e gradevole agli uomini, se il comando ricevuto verrà eseguito senza esitazione, lentezza o tiepidezza e tantomeno con mormorazioni o proteste,
  15. perché l’obbedienza che si presta agli uomini è resa a Dio, come ha detto lui stesso: “Chi ascolta voi, ascolta me”.
  16. I monaci dunque devono obbedire con slancio e generosità, perché “Dio ama chi dà lietamente”.
  17. Se infatti un fratello obbedisce malvolentieri e mormora, non dico con la bocca, ma anche solo con il cuore,
  18. pur eseguendo il comando, non compie un atto gradito a Dio, il quale scorge 1a mormorazione nell’intimo della sua coscienza;
  19. quindi, con questo comportamento, egli non si acquista alcun merito, anzi, se non ripara e si corregge, incorre nel castigo comminato ai mormoratori.